Pensare ad una lingua di minoranza significa, ad un primo approccio, riferirsi alla condizione che accomuna un gruppo di parlanti che si esprimono in un contesto di inferiorità numerica rispetto ad una situazione generale. Una condizione tutt’altro che insolita fino a cent’anni fa, quando la sola mancanza di una strada, o l’impraticabilità a volte anche temporanea di un sentiero consentiva ad una comunità di mantenersi isolata preservando così i caratteri originali della propria lingua.
Il che sarebbe anche poco significativo di per sé, se non fosse che attorno a questi “caratteri linguistici” si consolidavano tradizioni, prassi giuridiche, consuetudini ed in ultima misura sensibilità che hanno finito col generare in ogni luogo caratteri la cui forza alligna ancor oggi nei luoghi.
Che poi questa lingua – ma il discorso vale anche per i dialetti – non sia “meno importante” della lingua nazionale lo sanno bene gli specialisti della materia. In Italia, ad esempio, da tempo abbiamo acquisito l’idea che è sbagliato ritenere il dialetto degradazione dell’italiano, mentre è più corretto vedere sia l’uno che l’altro (italiano e i dialetti) come l’esito di una più ampia “corruzione” del latino. Ed il fatto che il latino, di salda matrice indoeuropea, non sia l’unico onorevole antenato dei parlanti di oggi tra Veneto, Friuli Venezia Giulia e Slovenia è cosa ben nota a ladini e ai friulanofoni, che si esprimono utilizzando lingue (oggi) di minoranza che hanno avo comune il retoromanzo, di cui da molti anni ci si affanna a comprendere l’origine.
La situazionale è paradossale: da una parte abbiamo leggi che tutelano le specificità delle lingue di minoranza, e dall’altro abbiamo maturato la chiara coscienza che, in fondo, la vicenda delle lingue e dei dialetti è accomunabile a quella di due grandi gruppi di fratelli degenerati cresciuti sotto l’arcigno ma impotente sguardo di due attempati genitori.
Come detto nel corso degli anni l’illuminato legislatore è intervenuto a vari livelli per raddrizzare almeno i più anziani tra questi fratelli, gli unici che hanno avuto alla fine la dignità d’esser chiamati lingua! Parliamo del Friulano (le leggi regionali n.29/2007 e n.4/2001 approvate dall’Assemblea legislativa del Friuli Venezia Giulia) e oltre ad esso del Ladino e del Cimbro (che a sua volta il Consiglio regionale del Veneto ha tutelato con leggi regionali n. 73/1994 e 8/2007). Ma lo stesso ha fatto lo Stato con la Legge statale 482/1999 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” sulla scorta dei principi della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie”, conclusa a Strasburgo il 5 novembre 1992 e sottoscritta dall’Italia solo pochi mesi dopo l’approvazione della sua legge.
Tutte le norme citate, proponendo strumenti di conservazione e tutela delle lingue partono dal giusto presupposto che non ci troviamo davanti ad una lingua originale poi andata a corrompersi col tempo, ma ad individualità difese gelosamente da chi le parla, anche attraverso strumenti che le Istituzioni cercano di fornire. Progetti come Primis fanno di più: cercano di mettere in luce le evidenze concrete, sia materiali che immateriali, di queste presenze antiche per salvare dalla desuetudine, anticamera dell’oblio, le lingue minoritarie.
Ma difese da chi? Certo, dall’imperare del trionfante inglese che ha come moderni vettori il linguaggio dei computer e – con essi - tutto ciò che di muovo possono portare i diversi stili di vita e le abitudini del secolo. Pensate ad uno dei più antichi palesamenti del volgare italiano, l’indovinello veronese del secolo IX: Se pareba boves, alba pratalia araba, / albo versorio teneba, negro semen seminaba (trad. “Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e aveva un bianco aratro, e un nero seme seminava). La parola versorio indica il versor, quella parte dell’aratro che frantuma la terra tagliata dal vomere, concetto che sarebbe una villania spiegare ad esempio al mio povero nonno, ma che oggi, dopo milleduecento anni di onorata carriera ha seguito le inesorabili vicende della sua vita, e dopo la nascita nelle fertili pianure del Tigri e dell’Eufrate è inevitabilmente morto e sepolto dai nuovi macchinari agricoli. Il tema è proprio questo: non è la banalizzazione dell’italiano o l’arditezza dell’inglese a far battere in ritirata le antiche lingue di minoranza, ma, in definitiva, quel concetto che Flaubert esprimeva grossomodo così: da giovani tutto è vivo e nuovo, da vecchi il cuore diventa una necropoli.